Al culmine della disperazione – Emil Cioran

Il primo libro di Cioran, scritto quando aveva solo 22 anni.
Che a 22 anni si possano esprimere pensieri che nemmeno a novant’anni potrò mai capire è un qualcosa che trovo sconcertante.
Quarantuno capitoli in cui si parla dell’essere umano e della sua essenza evidenziando il contrasto tra il bisogno di conoscenza e il desiderio di ignorare, per evitare il dolore, tra .

In una delle prime recensioni che lessi, questo libro veniva presentato come un testo in cui il filosofo iniziava a fare i conti con una vita disperata e con il pensiero del suicidio.
Non è stata la mia prima lettura di Cioran, questo testo giunge dopo altri tre o quattro, ma anche dopo molti testi di Nietzsche e di alcuni esistenzialisti, ma non ho trovato alcun nesso con la disperazione ed il suicidio ed è stato molto interessante provare a capire il perché qualche lettore possa averlo pensato.
Sono consapevole del fatto che il giudizio sul pensiero di uno scrittore sia posizionale, ovvero dipende dalla prospettiva culturale dalla quale lo si osserva. Se non si riesce a porsi nell’ottica dell’autore il giudizio errato è presto emesso.
Cioran è un pessimista, ma occorre dire che ci sono due tipologie di pessimisti. Coloro che percepiscono le cose del mondo e si arrendono, si lasciano andare e pensano di anticipare la morte, e coloro che cercano di indagare quella oscurità.
Se il lettore percepisce il pensiero di Cioran come pessimismo passivo, è logica conseguenza attribuirgli un desiderio di suicidio.
Cioran va letto e compreso proprio per uscire da questa ottica del pessimismo passivo, l’unico che la cultura occidentale, cristiana, può insegnare (e qui rubo i pensieri a Nietzsche e ad Heidegger) ed appropriarsi di quella alternativa che consente di percepire la vita sotto un altro punto i vista. Cioran si posiziona sulla terra, costi quel che costi, tra il cielo cristiano e il l’oltreuomo di Nietzsche. Non è facile rimanerci senza desiderare una via di fuga. Non vi è consolazione alcuna e c’è da chiedersi cosa occorra per recepire questo pensiero e non pensare al suicidio. Ecco, questo non è spiegabile, ma provare a capire significa percorrere un lungo cammino lastricato di buoni motivi per suicidarsi.
Per essere felici occorre ignorare, essere ingenui, voler comprendere, senza illudersi, implica sacrificio ed infelicità.
Il ragionamento è opaco? Certo che lo è. Deve esserlo. Non può non essere che così.

Riflessioni personali su passaggi particolari

“Sono sempre più convinto che l’uomo è un animale infelice, abbandonato nel mondo, costretto a trovarsi una modalità propria di vita, quale la natura non ha mai conosciuto. La sua pretesa libertà lo fa soffrire più di qualsiasi forma di prigionia nell’esistenza naturale. E allora non mi stupisce che giunga talvolta a invidiare un fiore o una pianta.”
(Non essere più uomo. Pag. 81)

Ovvero “l’uomo è alieno al mondo e per dare, diciamo, uno scopo alla sua vita, non può avvalersi della natura perché in natura non c’è nulla di simile all’essere umano”? E’ un assioma o lo vedo tale perché mi ricorda il concetto di “gettatezza” di Heidegger? Quindi ho un preconcetto che mi svia?
Oppure potrei vederci quel dualismo platonico, ripreso dal cristianesimo, secondo il quale l’essere umano è formato da corpo, che appartiene alla natura, ed anima, che ad essa è estranea. Questa spiegazione è più semplice da capire, ma la banalità è nel dare per assunto che valga il concetto di dualismo anima-corpo.
Per inoltrarsi in simili speculazioni occorrerebbero capacità logiche che mi mancano. Ma poi, perché una persona di alta caratura intellettuale, senza pastoie culturali o religiose, senza pregiudizi di sorta dovrebbe desiderare uno stato in cui il pensiero è assente?
Quasi l’essere umano fosse un’anomalia della natura e ad essa volesse ritornare.
Quale simbolo della natura migliore del fiore e della pianta? Ma quella che chiamiamo anomalia, non è, invece il dono divino dell’intelletto? Ma poi perché lo si chiama dono se ci svela la miseria umana? Meglio sarebbe stato rimanere bestie. Ma, in effetti non fu dono, ma furto.

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